L'ISPIRAZIONE EVANGELICA
Dio-Trinità e famiglia di Nazaret
La bella notizia di Gesù prende corpo in due direzioni entrambe “familiari”: da un lato, la comunione delle tre persone divine, dall’altro, la comunione della famiglia di Nazaret. Lo si vede fin dal primo annuncio dell’angelo a Maria: il “chaire”, l’invito alla gioia, rivolto da Gabriele alla “piena di grazia” (kecharitomene) apre il cielo sulla terra. “Il Signore è con te”. “Colui che nascerà da te sarà chiamato figlio dell’Altissimo”. “Lo Spirito Santo scenderà su di te”. Il sì di Maria introduce, con il Verbo fatto carne, il dialogo trinitario nella storia. Gesù, nel primo istante del concepimento, e Maria, che lo accoglie nella fede e nel grembo, sono già Chiesa. E sono Chiesa-famiglia. Madre e figlio. C’è anche, naturalmente, Giuseppe, al quale l’angelo assicura l’apertura al mistero. Maria, Giuseppe e Gesù sono la cellula fondamentale della Chiesa, che germina sul terreno della grande preparazione – anch’essa “ecclesiale” – dell’Antico Testamento. Il vangelo, la bella notizia data dall’Angelo nell’annunciazione, si incentra proprio nella congiunzione in Gesù, Verbo incarnato, della sua “famiglia” divina (per quanto si possa analogicamente applicare al mistero trinitario la categoria di “famiglia”) e la sua famiglia umana. Nel silenzio di trent’anni, questa Chiesa germinale cresce, fino a venire alla luce nel mistero pasquale di morte – risurrezione – effusione dello Spirito.
La Chiesa-famiglia
Secondo un’immagine cara ai Padri della Chiesa, la Chiesa nasce dal costato trafitto di Cristo, donde sgorga acqua e sangue. Un’immagine desunta dal simbolismo biblico della Genesi: Eva nasce dal fianco di Adamo. Immagine che esprime insieme il dinamismo generativo e quello sponsale: sulla croce la Chiesa è “partorita” e insieme si consuma lo “sposalizio” che avrà il suo compimento glorioso quando, alla fine dei tempi, la Chiesa scenderà dal cielo “come una sposa pronta per il suo sposo” (Ap 21,2).
Che la croce sia l’ora del “parto” è Gesù stesso che in qualche modo lo dice, rivolgendosi a Maria e al discepolo amato: “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre”. Giovanni rappresenta tutta la Chiesa. “Da quel momento il discepolo la prese con sé”: il “corpo” della Chiesa – corpo mistico, secondo la terminologia classica – è venuto alla luce, pronto per essere “animato” dallo Spirito Santo, che è “consegnato” da Gesù col suo ultimo respiro (lo suggerisce il testo giovanneo con l’espressione “consegnò lo spirito/Spirito”, mentre i vangeli sinottici si limitano a dire “spirò”). Lo Spirito verrà poi “alitato” sugli apostoli nella prima apparizione del Risorto (“ricevete lo Spirito Santo”) e infine inviato con potenza a Pentecoste, dove ancora una volta, insieme con gli apostoli, c’è Maria.
Ma se questo è il parto, dov’è il concepimento? Senza dubbio nel momento dell’incarnazione, quando il Verbo si fa carne nel grembo di Maria. Un momento ideato dal Padre “prima della creazione del mondo”, come spiega l’inno cristologico della lettera agli Efesini (Ef 1,4), e preparato da tutto il cammino dell’azione di Dio nella vicenda umana e in particolare dell’alleanza di Dio con Israele.
Nella fede di Maria, nel suo “sì”, si raccoglie e si compie l’attesa di tutta l’umanità, e in modo particolare quella di Israele. È la “pienezza del tempo” (Gal 4,4): con l’effusione dello Spirito su Maria il mistero “nascosto” si rende in qualche modo visibile. Il Verbo si è fatto carne, perché anche noi, in lui, fossimo adottati come figli, e potessimo chiamare Dio col nome tenero e intimo con cui egli lo chiama: “Abbà” (Mc. 14, 36; Gal 4, 6).
Maria offre a Gesù il suo corpo fisico, ma soprattutto la sua fede. Nel grembo di Maria è presente il DNA della Chiesa come corpo di Cristo. Tutti gli altri membri di questo corpo, a partire da Giuseppe, sono come un’espansione di questa cellula iniziale. Maria è la “vergine fatta Chiesa”, per dirla con una penetrante intuizione di S. Francesco d’Assisi.
(Dal Libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 49-53)
IL METODO GESÙ
La “famiglia dei discepoli”
Una storia nuova si realizza nel triennio – all’incirca – che inizia col battesimo di Giovanni, dove la voce del Padre e l’effusione dello Spirito “come colomba” è una esperienza che lo coinvolge nell’intimo, ma che ha già, almeno agli occhi del Battista, qualcosa che brilla all’esterno. Ora il silenzio di Nazareth è finito: la sua voce comincia a squillare, con apparente somiglianza a quella di Giovanni, ma ormai con il timbro di un annuncio che non è proiettato nel futuro, ma tanto “vicino”, da coincidere con “l’adesso” della sua persona: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 14). Il regno, in definitiva, è in lui, anzi “è” lui. “Auto-basileia” (= “auto-regno”), sintetizzava acutamente Origene.
Occorre fare attenzione alla maniera con cui Gesù organizza il suo ministero di predicatore: egli sceglie un metodo “familiare”, che esprime appunto il mistero intimo del regno e della Chiesa come famiglia. Da un lato, la sua parola si rivolge a tutti: folle si raccolgono intorno a lui, talvolta a migliaia, come nella moltiplicazione dei pani. È lo slancio di una missione che non vuole escludere nessuno. Gesù la spiega nella parabola del seminatore, dove la parola di Dio appare come un seme che cade sui più diversi terreni, anche i più refrattari, germogliando sul buon terreno. Ma proprio a conclusione di questa parabola un’indicazione importante: dopo l’annuncio a tutti, i dodici lo interrogano, ed egli riprende il discorso con loro.
Il vangelo di Giovanni fa cominciare la costituzione di questa famiglia già sulle rive del Giordano dopo il battesimo, quando il Battista addita in Gesù l’Agnello di Dio e due discepoli di Giovanni si mettono sulle sue orme di Gesù seguendolo fin dentro casa. Anzi annota che proprio a loro è dato il “mistero del regno di Dio”, distinguendo tra quelli di “dentro” e quelli di “fuori”. Non capiremmo questa distinzione, se la intendessimo come una esclusione di qualcuno dalla salvezza. Il “dentro” invece, e, parallelamente, il “fuori”, rappresentano due atteggiamenti del cuore. Le “parabole”, in altri termini, possono essere comprese solo da chi sta “dentro”, ossia in un rapporto di “famiglia” con Gesù. Il seme è dato a tutti, ma la “coltivazione” di esso – spiegazione e attualizzazione – , hanno bisogno di un clima speciale, quale è il clima dell’amore. “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 1,33).
Questo “privato” di Gesù, espresso dalla famiglia dei suoi discepoli, non è dunque una “chiusura”, ma una condizione di coltivazione della Parola – come una serra che la difende dalle intemperie – perché il seme possa germogliare e moltiplicarsi, ed essere poi, attraverso la predicazione apostolica, “riseminato” per tutti.
Si comprende allora perché Gesù, dopo il primo annuncio del Regno, non dica più, secondo la narrazione evangelica, alcun’altra parola prima di essersi formato la sua “famiglia”, che gli farà compagnia nel suo pellegrinare di luogo in luogo. La sua parola per gli apostoli è invito a far famiglia con lui, a condividere la sua missione: “venite, vi farò pescatori di uomini” (Mc 1, 17).
La famiglia apostolica ha i suoi primi membri! Attraverso di loro si diramano altri inviti, che raggiungono soprattutto amici intorno al lago di Galilea. È lo stesso ambiente in cui Gesù, per trent’anni, è stato inserito a pieno titolo nella sua famiglia di sangue (che tuttavia, in Maria e Giuseppe, era anche altissima famiglia spirituale). Nell’episodio delle nozze di Cana le due famiglie si incontrano – è infatti improbabile che Maria non sia stata accompagnata da altri parenti (di Giuseppe ormai non si parla più) – mentre Gesù, ugualmente invitato, ha con sé la nuova famiglia dei discepoli. Maria fa da cerniera tra le due “famiglie”: lei appartiene pienamente ad entrambe, e già fa in qualche modo anche da madre della seconda, intervenendo con la fede che “sposta le montagne”, e in questo tempo persino i tempi di Dio, per ottenere dal Figlio il primo segno – l’acqua cambiata in vino – che spiega simbolicamente l’inizio sponsale del Regno in Gesù. Ne sgorga la fede nel cuore dei discepoli. Maria, modello di fede, è madre dei credenti. La Chiesa-famiglia cresce, pur ancora in gestazione. Maria ribadisce il suo ruolo chiave: la famiglia di Gesù ha un aggancio originario e permanente al suo grembo di madre. È “comunità Maria”. Ma, prendendo spunto dalle fatiche della fede della sua famiglia carnale (salvo la fede di Maria), Gesù dovrà chiarire ancora che la sua “vera” famiglia è quella dei veri credenti, quelli che fanno la volontà di Dio (Mc 3, 31).
(Dal libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 58-60)
LA PRIMA COMUNITÀ CRISTIANA
Un cuor solo e un’anima sola
Nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli Luca intercala la sua narrazione con dei “sommari”. Due di essi (At 2, 42-47; At 4, 32-35) riguardano la vita della comunità, presentata in termini molto ideali, soprattutto nel segno della concordia fraterna. Sappiamo che anche allora la vita reale doveva essere più complessa e non priva di mancanze. Ma quello che lo Spirito Santo vuole segnalare, in questi quadri ideali, è la meta a cui dobbiamo tendere.
È da notare, soprattutto nel primo, che l’unione fraterna (la comunione = “koinonia”) sta dentro una serie di atteggiamenti e azioni, che ne sono, in qualche modo, il nutrimento e la garanzia. Il primo di essi è l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, dunque della parola di Dio da essi annunciata e spiegata. Si parte sempre da lì: ascolto e obbedienza. C’è poi lo “spezzare il pane”, ossia il centro vitale della comunità rappresentato dall’eucaristia, e le “preghiere”, di cui non si esplicita alcuna modalità, ma che certamente, nelle loro diverse espressioni, indicano lo spirito di preghiera costante che deve animare la vita cristiana.
È dentro questo clima – che nel secondo sommario Luca delinea con la bella espressione “un cuor solo e un’anima sola” – che si realizza la condivisione dei beni anche materiali:
“Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Lc 2, 46).
Quello che si evince è almeno il tentativo che fu fatto dalla comunità delle origini per dare corpo a quanto il Signore aveva detto a proposito di unità dei suoi discepoli. “Che siano uno” (Gv 17). “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”. I primi cristiani ci provarono, con tutte le loro fragilità.
Non ci è detto come erano organizzati, perché questa concordia diventasse anche condivisione di beni: dobbiamo immaginarlo partendo da qualche dettaglio offerto quasi per caso, ma che può darci ispirazione.
Un primo dettaglio è in At 2,46: “Ogni giorno frequentavano tutti insieme il tempio e nelle case spezzavano il pane prendendo cibo con gioia e semplicità di cuore”. Si intravede un duplice movimento: da un lato un movimento verso l’assemblea, che ha come sede il tempio. Più tardi verranno le grandi chiese, fino alle basiliche. La comunità cristiana ha bisogno di questi segni e di queste “sedi” in cui celebrare l’unità e sentirsi un sol popolo. La chiesa parrocchiale, e più ancora la chiesa cattedrale, hanno acquisito col passare del tempo questa funzione che all’inizio era svolta dal tempio di Gerusalemme; dall’altro lato, un movimento di articolazione nelle “case” (kat’oikon), dove si celebrava anche l’eucaristia (“spezzare il pane”) e insieme si prendeva cibo con gioia e semplicità di cuore.
Evidentemente era nelle case che avveniva la distribuzione dei beni che venivano messi in comune, o si sostenevano i più poveri partendo da una cassa comune. I primi cristiani vivevano il loro essere famiglia distribuendosi nelle case messe a disposizione da alcuni di loro. Un cristianesimo che acquistava il volto della famiglia, senza perdere, nella riunione assembleare al tempio, quello di popolo.
Un secondo dettaglio è offerto nel cap. 6, in cui si parla del malcontento che si levava dalle famiglie dei cristiani di lingua greca, i quali lamentavano che nel servizio delle mense le loro vedove venivano trascurate. Ne nasce, da parte degli Dodici, la conclusione di non potersi dedicare a questo servizio, e costituiscono i “sette” (con qualche estensione di significato, saranno qui visti i “diaconi”) proprio per questo servizio. Qui interessa la parola “mensa”. Essa fa immaginare che, proprio nelle case, insieme con la celebrazione eucaristica, i cristiani prendessero cibo insieme. La comunità delle origini era veramente una “famiglia di famiglie”, dove l’amore plasmava una fraternità, consequenziale fino alla comunità di mensa. Sarà pur stato, questo racconto, idealizzato, ma rimane comunque un “ideale”, a noi additato dallo Spirito Santo.
(Dal libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 65-67)
EXCURSUS STORICO
- Comunità di base
Al di là dei movimenti, l’esigenza della comunione e della fraternità esplose nel dopo-Concilio, a partire dagli anni ’70, con la nascita di aggregazioni ed esperienze comunitarie, a cui partecipavano sacerdoti, religiosi e laici, desiderosi di un nuovo protagonismo della “base” ecclesiale, aggregandosi intorno alla Parola di Dio ed anche all’eucaristia, in modo libero rispetto agli schemi istituzionali. Si tratta delle “comunità cristiane di base”. Si desiderava riscoprire la freschezza del vangelo, realizzandolo nel modo di essere Chiesa ma anche nella testimonianza nel sociale. Sicuramente ci fu tanto bene, e molti cristiani, forse delusi dagli schemi ufficiali della vita parrocchiale o, più in generale, della Chiesa, si sentirono intercettati positivamente da quelle proposte. Al tempo stesso molte di quelle esperienze conobbero derive dottrinali e disciplinari.
Con un maggior presupposto di ecclesialità, nacquero e si diffusero largamente, specie in Brasile, e in generale in America Latina, ma poi anche in Africa e in Asia, le “comunità ecclesiali di base” (CEB). Rispondevano ad un’analoga esigenza di dare alla vita ecclesiale un maggior calore di comunione e una maggiore aderenza alle sfide della testimonianza cristiana nelle diverse regioni, partendo dalla lettura della Parola di Dio, e dandosi premura soprattutto per i poveri e il cambiamento sociale. Esperienze che sono state, e rimangono, di grande significato pastorale, e non devono alimentare sospetti o pregiudizi negativi solo per il fatto che, in alcuni contesti, hanno risentito di una tendenza a svilupparsi in senso troppo sociologico, con qualche tensione rispetto al magistero e alla vita ecclesiale ordinaria.
- Parrocchia e piccole comunità
Nel solco di una analoga esigenza di ritorno al “piccolo”, si sviluppano in Italia e nel mondo delle esperienze di piccole comunità che partono proprio dalla constatazione di un deficit della vita parrocchiale e del desiderio di rinnovarla dall’interno. La parrocchia fa sempre più i conti con un mondo che cambia, avvertendo di non riuscire a dare una risposta efficace alla crisi della fede, dei valori e della società cristiana. Si comprende che lo schema parrocchiale classico non basta più.
Si constata che una parrocchia in cui tutto, o quasi, ruota intorno al sacerdote, anche quando egli, secondo le indicazioni conciliari, si premura di organizzare una catechesi, una liturgia, una carità, in forme aggiornate ai nuovi criteri teologici e pastorali, sollecitando e valorizzando la responsabilità laicale attraverso gli organismi di partecipazione (Consiglio pastorale e consiglio per gli affari economici), e mostrando stima per le aggregazioni laicali, non riesce più a raggiungere tutti e soprattutto a far fronte all’esigenza dei singoli di essere incontrati come persone. Un simile schema poteva valere nella società compatta di un tempo, in cui la tenuta della famiglia e la convergenza valoriale di gran parte delle agenzie sociali ed educative, non ancora sottoposte alle mille spinte dell’era internet, giocavano a favore dell’impegno di una parrocchia aggiornata e ben ordinata. Ora occorre fare i conti con la dispersione, con la confusione dei valori, con la solitudine di tante persone, con la crisi del matrimonio e della famiglia. Nasce l’urgenza di riorganizzare la vita parrocchiale in modo da poter stare più vicini alle singole persone, mettendole in “rete”, per dare una risposta all’esigenza di ritessere rapporti di comunione sia nella Chiesa come nella società. Nascono così diverse formule, che riprendono l’idea delle Comunità ecclesiali di base, ma con diversi accenti, da cui nascono anche diverse denominazioni. Ne cito tre che si sono già da tempo affermate:
• le comunità ecclesiali di base. Se ne hanno diversi modelli e ideatori. Una è nata nate negli anni ’70 nel quadro del progetto NIP (verso una Nuova Immagine di Parrocchia), elaborato dal Movimento Mondo Migliore. Ogni CEB è formata da 25-30 persone adulte, che si pongono in relazione in nome della fede assumendo parte attiva nell’edificazione della Chiesa e nell’evangelizzazione. Ad ogni comunità è proposto un cammino progressivo in tre grandi tappe: convocazione, pre-catecumenato, catechesi. Con accenti simili si pone il disegno delle “comunità ecclesiali di base” sviluppato nel progetto “Parrocchia comunione di comunità”, ad opera della “Missione Chiesa – Mondo”.
• le cellule parrocchiali di evangelizzazione: un’idea venuta in Corea al pastore protestante Paul Yonggi Cho, “cattolicizzata” da prete americano Michael Eivers, che lo ha sperimentato in Florida, e sviluppato poi in Italia a partire dal 1987 da don Pigi, parroco di Sant’Eustorgio a Milano.
Da qui l’esperienza si è diffusa in tutto il mondo. Anch’essa fa leva sul piccolo gruppo che si raduna nelle case, con incontri settimanali di preghiera, condivisione, approfondimenti, avvisi-informazioni, preghiera di intercessione, preghiera di guarigione. Come “cellula”, il gruppo è chiamato poi a far germinare altre cellule, moltiplicandosi a seconda della vitalità di ciascun gruppo.
• le “comunità familiari di evangelizzazione”, fondate da mons. Renzo Bonetti. Il punto di forza su cui fanno leva è la stima del sacramento del matrimonio, che rende gli sposi soggetti e non soltanto destinatari della pastorale. La formula è quella di una “comunità” composta da 8-10 persone di differenti stati di vita (sposati, separati, singoli, consacrati), che si riuniscono, in funzione della comunione, della formazione e dell’evangelizzazione, nello stile delle chiese domestiche (“domus ecclesiae”) della comunità primitiva. Si sviluppano come una rete in cui si articola la vita stessa della parrocchia, a partire dal ministero di una coppia di sposi che accoglie settimanalmente i fratelli, sviluppando un metodo di incontro caratterizzato da preghiera di lode, di ringraziamento, di intercessione, di ascolto della Parola.
Bastino questi cenni, per dare un quadro di un cammino ecclesiale che, nel dopo-Concilio, sta progressivamente portando la pastorale, e in particolare la parrocchia, a una vera “rivoluzione” di metodo, a una sua “rifondazione”, che senza nulla perdere di ciò che resta perennemente valido nell’impostazione tradizionale, si muove tuttavia verso un nuovo paradigma, che meglio esprime l’ecclesiologia di comunione e meglio risponde alle esigenze del cristiano del nostro tempo. Le “comunità Maria famiglie del vangelo”, oggetto di questo saggio, nascono in questo grande orizzonte, con quelle scelte proprie e le poche specificità che vengono dalla ricchezza della Chiesa Assisi, madre del Poverello, in umile proposta che attinge il bene da tutti e spera di portare qualcosa di buono a tutti.
(Dal libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 35-38)
CMFV UNA PREGHERA-PROGRAMMA
Consacrazione a Gesù
Cosa significa “consacrarsi”? Spieghiamolo a partire dalla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17). In essa Gesù chiede che i discepoli siano “consacrati nella verità”. Il verbo è “agiazo”, cioè “santifico” (agios = santo). Nella visione biblica Dio è il santo per eccellenza, il tre volte santo (Is 6, 3): ed è lui che santifica, ossia rende suoi. La nostra “santificazione”, o “consacrazione”, è avvenuta nel battesimo. Siamo santi – così Paolo ama chiamare i cristiani- in quanto apparteniamo al Santo.
A questa santità donata deve corrispondere una santità praticata, cioè una vita vissuta tutta per Dio.
Per comprendere questa risposta di santità al dono della santità, c’è nella preghiera sacerdotale un dettaglio illuminante, nella parola che Gesù dice di sé: “per loro io consacro me stesso”. Ha forse bisogno di consacrarsi, lui che, come il Padre, è per natura il tre volte santo? Nella sua natura umana, dotata di vera intelligenza e volontà umana, anch’egli deve consacrarsi e santificarsi. Lo fa vivendo della volontà del Padre: “quello che piace a lui faccio sempre” (Gv 8, 29). Questo adesione costante alla volontà del Padre passa attraverso la sua libertà: se essa non può cedere al peccato, che sarebbe in contraddizione con la sua natura divina di Verbo, può sottoporsi tuttavia alla tentazione, fino all’invocazione drammatica del Getsemani: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Anche per Gesù, dunque, il “sì” al Padre dev’essere continuamente ribadito. A maggior ragione ciò vale per noi. La santità che ci è stata donata nel battesimo, deve essere ogni giorno accolta e praticata. Di qui il senso della consacrazione di se stessi a Gesù fatta dai membri delle CMFV. Qui si aggiunge, alla consacrazione personale, anche quella comunitaria: ci si consacra come “famiglia”, prendendo l’impegno dell’amore reciproco proprio per aiutarsi a vivere conformati a Gesù, come si dice in un passaggio della preghiera: “vivere l’uno per l’altro, perché Tu viva tutto in ciascuno di noi”.Uno sguardo complessivo
Rimandando il commento più oltre, quando si daranno le schede del “seminario introduttivo”, limitiamoci qui a mettere a fuoco i diversi passaggi del testo, che dividiamo in cinque passaggi:
- Lo sguardo cristocentrico-trinitario-mariano.
Ci si rivolge a Cristo, nella parte che inizia col suo nome santissimo “Gesù” e finisce con “nostro bene”. Egli è colto nella sua identità divina, in rapporto al Padre che lo ha generato, e perciò è detto suo “amore e splendore”.
A lui si guarda nello Spirito che egli ci ha donato, incontrandolo nel luogo privilegiato che è la Vergine Santa sua sposa (“con Maria e in Maria”), luogo concreto in cui è avvenuta la sua generazione nella carne e dove egli, dalla croce, ha è stato deposto il seme della nostra rigenerazione come figli nel Figlio (Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua Madre).
- Per me vivere è Cristo.
Questo programma espresso così efficacemente da Paolo (Fil 1, 21) è il senso del secondo passaggio da “dacci di vivere” fino a “vivere in noi”. A Gesù chiediamo di “essere lui”, identificandoci e immedesimandoci con tutti i suoi pensieri, sentimenti, affetti..
3- Vivere per i fratelli
Non si può vivere di Gesù, senza vivere di amore. Facciamo nostro il comandamento dell’amore, che dilata concretamente il nostro cuore a tutti i bisogni dei fratelli, anzi ci fa vedere lui nei fratelli, facendoci amare quelli che ci amano, ma anche coloro che hanno bisogno di essere perdonati. Facciamo così della nostra vita un dono, fino alla condivisione dei nostri beni.
4. Il dono dell’unità.
È il dono che Gesù ha chiesto al Padre nel suo “testamento”: “che siano una sola cosa” (Gv 17,21). Un dono nel quale si racchiude tutto ciò che Gesù desidera per noi, il Paradiso sulla terra. Un dono impegnativo: si tratta di vivere l’uno per l’altro, di amarsi come ci ama lui, essere un cuor solo e un’anima sola. Atteggiamenti che ci vengono suggeriti dal Vangelo, dagli Atti degli Apostoli, da Paolo, e sono il concreto impegno che i membri delle famiglie del vangelo prendono sia come credenti, in rapporto a tutta la Chiesa che è la grande famiglia, sia come membri della “piccola famiglia”, in cui la grande si riflette e in cui si cammina. Nella piccola famiglia, la “comunità Maria”, questi atteggiamenti trovano lo spazio concreto in cui esercitarsi e realizzarsi, senza astrattezze, nel concreto dei rapporti vicendevoli. Contro ogni tentazione di chiudersi nel “nido” protetto del piccolo gruppo, per ciascuno di questi atteggiamenti viene indicato una prospettiva di apertura, secondo indicazioni ugualmente date dalla Scrittura: la prima indicazione, è la motivazione del cammino di santità. Ci si impegna a vivere l’uno per l’altro, per aiutarsi a far diventare Gesù il tutto della propria vita (perché tu viva tutto in ciascuno di noi). Ci si ama con l’amore di Gesù, “perché il mondo creda”. È lui che ha dato l’amore reciproco come distintivo dei suoi discepoli, e nella preghiera indica l’unità come segno che egli è mandato dal Padre. Infine ci si impegna ad essere “un cuor solo e un’anima sola”, per essere segno e strumento di unità del mondo: prospettiva missionaria, in cui è evocato quanto la Lumen Gentium dice della Chiesa, presentandola come “sacramento” dell’unità con Dio e dell’unità del genere umano.
In definitiva, la vita in unità, nella pratica di ciascuna “famiglia del vangelo”, ha il respiro della missione: rende evangelizzatori, banditori della gioia del vangelo e testimoni dell’amore di Dio.
5. Invocazione per le fragilità
Un impegno tanto grande è assunto con la piena coscienza della propria fragilità. Imboccare una strada non è averla percorsa.
Al contrario, si sa quanto sia piena di fatiche e possa continuamente essere insidiata. Ma la fiducia nella grazia e nella misericordia ha la meglio. Si chiede a Gesù di vincere ogni smarrimento, considerando la nostra vita tutta sua.
Ciascun membro di una CMFV si impegna, preferibilmente con l’inizio della giornata, a fare, con questa preghiera, l’affidamento di sé a Maria, concepito come un rivivere la scena della Madre di Gesù sotto la croce. Ci si pone, in qualche modo, nei panni del discepolo amato, mentre Gesù “genera” la Chiesa, dando una Madre al discepolo e chiedendo al discepolo di prendere con sé sua Madre. Dentro questo prendere “con sé” c’è tutta la filigrana battesimale: il mistero che ci fa “rinascere” nello Spirito Santo, come chiedeva Gesù a Nicodemo (Gv 3,3-5). Stare con Maria e, in certo senso, in Maria, ci fa incontrare il suo sposo divino, lo Spirito Santo, e ci mette in grado di essere continuamente “rigenerati” da lui per essere “trasformati in Gesù”, a gloria del Padre.
Preghiera essenzialmente trinitaria, nella prospettiva di Maria. Della persona del Padre è indicato il nome caro a Gesù, Abbà, espressione di intimità filiale. Dello Spirito Santo è indicato anche il termine ebraico Ruah, per evocare la teologia dello Spirito Santo, dall’Antico al Nuovo Testamento, soprattutto nel suo essere respiro, alito di vita, come quello che Gesù soffiò sugli apostoli dopo la risurrezione (Gv 20,22). In effetti, essere rigenerati nel grembo di Maria, che è l’espressione più intima del grembo ecclesiale, è possibile solo se si riceve e si “respira” lo Spirito Santo. Il prendere poi Maria con sé, lungi dal ridursi a qualche devozione mariana, è una scelta di vita: ci consegniamo alla Madre non solo per far conto sulla sua premura materna, ma anche per dichiararci docili al suo lavoro di educatrice. A lei affidiamo i nostri pensieri, i nostri affetti, i nostri progetti. È qualcosa che richiama il “tutto tuo” (“totus tuus”), nella sua profondità cristologica (Cristo in Maria) e pneumatologica (lo Spirito sposo di Maria), caro a tanti santi, da S. Luigi Maria Grignion de Montfort a s. Giovanni Paolo II.
(Dal libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 87-93)
TESTO DELLA PREGHIERA DELLE CMFV
O Gesù, nostro amore, nostro tutto,
nello Spirito Santo, con Maria e in Maria,
noi ci consacriamo a Te.
Tu, amore e splendore del Padre,
sei la nostra gioia, il nostro canto,
la nostra speranza, tutto il nostro bene.
Dacci di vivere con la tua vita,
di amare col tuo cuore,
di pensare con i tuoi pensieri,
di sentire con i tuoi sentimenti,
di vedere con i tuoi occhi,
di soffrire con la tua croce:
sii Tu a vivere in noi.
Insegnaci a spenderci con Te,
senza misura, per i nostri fratelli,
a fare della nostra vita un dono di amore,
a vederti sempre e dappertutto,
soprattutto in chi soffre,
e ad essere in ogni momento,
col sorriso e la pazienza,
la misericordia e il perdono,
e la condivisione di ciò che abbiamo,
i testimoni del tuo amore,
i banditori della tua gioia.
Ti chiediamo di renderci
famiglia spirituale:
vivere l’uno per l’altro,
perché Tu viva tutto in ciascuno di noi;
amarci come ci ami Tu,
perché il mondo creda che il Padre di ha mandato;
essere un cuor solo e un’anima sola,
perché tu possa realizzare,
anche attraverso noi,
il tuo sogno di unità per la Chiesa ed il mondo.
Vinci, o Gesù,
ogni nostra resistenza.
Riprendici
in ogni nostro smarrimento.
Agisci Tu dentro di noi:
trattaci come cosa tua,
ora e sempre,
per il trionfo del tuo amore. Amen
AFFIDAMENTO A MARIA
O Maria
da Gesù Crocifisso
ti accolgo come Madre mia.
Mi chiudo nel tuo cuore,
mi consegno a Te,
anima e corpo,
pensieri, affetti e progetti,
perché il tuo Sposo divino,
lo Spirito Santo, Ruah,
mi rigeneri e trasformi in Gesù
a gloria di Dio Abbà. Amen
L'INCONTRO SETTIMANALE CMFV
Perno della vita di famiglia è l’incontro settimanale che si svolge, ordinariamente, nelle case di quanti hanno la possibilità di metterla a disposizione dei fratelli, preferibilmente a turno. Ma non è escluso che ci si veda in parrocchia o in una casa che stabilmente viene messa a disposizione.
L’incontro deve esprimere tutti i valori della consacrazione, sia quelli che mettono in evidenza la centralità di Gesù, della sua parola, della sua lode, sia quelli che riguardano il rapporto tra fratelli, a partire dalla preghiera di intercessione, fino a quelle espressioni di attenzione fraterna, che aiutano a sentirsi famiglia. Tale può essere una espressione conviviale, ma che dev’essere gestita con grande sobrietà, senza che ne derivi un appesantimento temporale dell’incontro, o un problema organizzativo, o anche solo dove ci sia il rischio che qualcuno si senta in imbarazzo per non aver la possibilità di offrire a sua volta questo servizio. La discrezione, l’affetto, la delicatezza, sapranno suggerire le soluzioni migliori. L’esperienza farà la sua parte. Ogni vita di famiglia, sotto questo profilo, può avere delle particolarità. La condivisione di esperienza con altre CMFV, ad esempio nei ritiri parrocchiali o diocesani, può dare idee ed essere di aiuto.
Schema dell’incontro
Uno schema di incontro – da guardare con la necessaria flessibilità e gli adattamenti che si ritengono necessari, ma senza rinunciare agli elementi essenziali – può essere così delineato.
Incontrandosi in una casa, con tutti i membri di una CMFV, che va normalmente dalle 8 alle 12 persone, occorre innanzitutto provvedere all’accoglienza . La gioia dell’incontro dev’essere palpabile, mai forzata e formale, espressa in modo che ciascuno si senta veramente desiderato e accolto.
Dopo l’accoglienza, occorre passare subito al centro intorno a cui tutto deve girare: il rapporto con Gesù, nella preghiera, nella “lectio”, nella condivisione.
È consigliabile – quando si può – raccogliersi intorno a un tavolo in cui la Parola di Dio è posta al centro, in modo da farle onore, magari con qualche segno (ad es. una lampada). Va poi ricordato che, essendo la Parola di Dio, il principale punto di riferimento di una CMFV, all’incontro settimanale ciascuno è invitato a partecipare con la propria Bibbia, imparando sempre di più a familiarizzare con essa. Il primo momento della preghiera è la lode, congiunta al grazie , per quanto il Signore ha fatto nella propria vita. Intercalando gli interventi con una piccola melodia, si può lodare e ringraziare, condividendo i motivi della lode e del grazie con i fratelli. Ad Assisi si usa farlo cantando il testo francescano del cantico di frate sole: “Laudato si’ mi Signore cum tucte le tue creature, laudato si’ mi Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’onor”.
Viene poi il momento in cui ci si mette in ascolto della Parola di Dio. Ad essa occorre avvicinarsi implorando lo speciale aiuto dello Spirito Santo e guardando all’esempio di Maria, la donna di fede per eccellenza. L’affidamento a Maria, in cui si consegna a lei la propria vita, i propri pensieri, affetti e progetti, e l’invocazione dello Spirito Santo, possibilmente in canto, possono essere i passaggi introduttivi alla proclamazione e all’ascolto della Parola.
Quale brano scegliere? Dal momento che le CMFV intendono porsi come un cammino parrocchiale, facendo proprio il ritmo dell’anno liturgico, il brano di vangelo della domenica successiva è normalmente il testo che viene proposto per la condivisione. Non è escluso, per le comunità che hanno fatto un buon cammino anche biblico, che l’intera liturgia della Parola della domenica successiva sia considerata. In tempi speciali, per esigenze formative della comuntà-famiglia, si può prevedere una “lectio” tematica del testo sacro. Normalmente le esigenze di viva partecipazione alla liturgia consigliano di preferire la Parola di Dio della domenica successiva all’incontro.
Alla proclamazione della Parola dovrebbe sempre seguire una breve spiegazione che ne illustri, con la massima aderenza al testo, il significato oggettivo secondo quanto il testo biblico effettivamente dice. C’è infatti il rischio che, se si parte dalla condivisione esistenziale, si faccia dire al testo biblico quello che si vuole, mentre la Parola di Dio dev’essere innanzitutto ascoltata. Questo servizio di presentazione dev’essere molto breve: pochi minuti, fra i tre e i cinque, per non togliere spazio alla condivisione. Se non c’è nessuno dei fratelli che sia in grado di rendere questo servizio, ci si può organizzare, all’interno della Parrocchia, o con un servizio diocesano, fornendo schede di lettura del testo.
Segue poi la condivisione, che non è uno “studio” del testo, ma è parteciparsi fraternamente quanto il testo dice alla propria vita. Un momento delicato. La sua riuscita è un po’ il termometro del calore spirituale e fraterno di una CMFV. Gli interventi dovrebbero essere brevi – non più di tre minuti, all’incirca – per lasciare spazio a tutti e non allungare gli incontri in modo insopportabile. Si è invitati tutti a parlare, ma può esserci chi, per un motivo o l’altro, non si sente. Dev’essere rispettato. Semmai può essere allora incoraggiato, ma con discrezione e affetto, in modo che non si senta in imbarazzo se decide di non parlare. Eventualmente si può suggerire, a chi fa fatica ad esprimersi, che rilegga per tutti, come risonanza, un versetto della Parola proclamata. In ogni caso non si abbia paura del silenzio: ha valore in sé, per assimilare la Parola di Dio, ed è sempre meglio di una parola forzata e detta per convenienza.
Un’attenzione speciale e cordiale, in questo momento di condivisione, va posta nell’ascolto del fratello: chi parla deve sentirsi veramente libero, non giudicato, accolto, apprezzato. Gli altri non stiano con lo sguardo assente o distratto. Facciano sentire al fratello che parla tutta l’attenzione che merita.
Alla fine dell’intervento lo ringrazino, o dicano una breve espressione di lode al Signore. Occorre credere che il Signore ci voglia dire qualcosa anche attraverso questo esercizio di condivisione fraterna, che rifrange nell’esperienza delle persone la luce della Parola.
Può verificarsi il caso di un fratello che, per qualche deficit formativo, nella sua condivisione faccia qualche affermazione che non corrisponde alla Parola di Dio e alla dottrina della Chiesa. Con delicatezza, senza l’aria dei censori o dei professori, occorre farlo notare – compito speciale dell’animatore o del sacerdote, se presente -, rinviando ad approfondimenti successivi. È importante, infatti, per una serena condivisione, che non si inneschino discussioni e repliche. Per gli approfondimenti le CMFV devono prevedere altri momenti di tipo formativo e catechetico. La condivisione diventa così soprattutto un esercizio comunitario di “revisione di vita”: ci si sente interpellati dalla Parola a uniformare sempre di più la propria vita al vangelo. Si cerca di “vedere” la vita per quella che è alla luce della Parola di Dio. Da questa viene un “giudizio”, che fa discernere il bene e il male della propria condotta. Ne dovrebbe scaturire un impegno di vita nuova. “Vedere, giudicare, agire”, è la classica scansione della revisione di vita.
Alla condivisione segue la preghiera di intercessione. I problemi, le esigenze, le situazioni di bisogno che ciascuno vive o che gli premono vengono segnalati ai fratelli. E poi tutti si prega per tutti. Nelle CMFV si è soliti farlo con una diecina del rosario, scegliendo il mistero che sembra più appropriato al contesto e al tempo. Bello anche recitarlo con la partecipazione di tutti si può, ad esempio, fare in modo che, a catena, ciascuno dica un’Ave Maria. Questa preghiera diventa così come un filo che unisce i fratelli. È consigliabile anche aggiungere, al nome “Gesù” di ogni Ave Maria, la clausola che ricorda il mistero che si sta meditando, secondo quanto suggerito da s. Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica “Rosarium Virginis Mariae”. Così come si può leggere, prima di cominciare la contemplazione con il Padre nostro e l’Ave Maria, qualche versetto della pagina biblica a cui il mistero si riferisce. In questo modo il rosario acquista quel volto biblico, cristocentrico e contemplativo, che permette a Maria di imprimere il mistero di Gesù sempre più profondamente nel nostro cuore.
A conclusione della preghiera di intercessione, si recita, o si canta, come un impegno rinnovato, la preghiera di consacrazione a Gesù. Si conclude possibilmente con un canto, per poi congedarsi con affetto fraterno, o mangiare qualcosa con semplicità, se ciò è stato previsto, con la discrezione di cui parlavamo poc’anzi.
(Dal libro di Mons. Domenico Sorrentino, Chiesa come famiglia, pp. 101-105)